Era il 19 ottobre del 1944,In una Palermo che aveva ancora vive le ferite causate dai bombardamenti.
Una città distrutta, dove oltre alle case anche le famiglie erano state divise, massacrate, abbandonate a se stesse.
Erano giorni dove non esisteva un minimo di certezza. La povertà era diventata intollerabile, la fame regnava e non solo tra i più poveri, ma anche tra la piccola e media borghesia. Il mercato nero e gli intrallazzisti senza scrupoli facevano solo i loro interessi rincarando tutta la merce e rendendo impossibili gli acquisti. Mancava il pane, i generi di prima necessità, mancavano indumenti. I siciliani erano stanchi, stremati, affamati e non volevano più essere mandati al fronte come “carne da macello”, non volevano più partire per la guerra: “Non si parte!” era il motto che girava in quel momento storico, era questo il clima che predominava tra la gente.
Organizzata e promossa da socialisti, comunisti e anarchici in un giovedì come tanti, circa 4000 persone si ritrovarono insieme per scioperare contro il caro-vita e per chiedere un aumento di salario: “pane, pace e lavoro”.
Un lungo corteo che chiedeva che una delegazione fosse ricevuta dal Prefetto Paolo d’Antoni e dall’alto commissario per la Sicilia, Salvatore Aldisio, ministro dell’interno. Dai vicoli vicini sbucava piano piano tanta gente che si univa al gruppo.I manifestanti non erano armati, qualcuno di loro aveva in mano, si dice, un pezzo di legno, qualche ramo, nulla di più. La Prefettura era presidiata da una trentina tra carabinieri agenti di pubblica sicurezza. Purtroppo sia il Prefetto che l’alto Commissario erano a Roma e nessuno avrebbe ascoltato le richieste degli scioperanti, nessuno li avrebbe ricevuti. Il vice prefetto Giuseppe Pampillonia ebbe paura e furono sbarrati il portone di ingresso e serrati i balconi.Qualcuno dei manifestati innervosito cominciò a sbattere pugni e bastoni di legno sulle saracinesche chiuse dei negozi. La tensione fu tanta che il vice prefetto telefonò al comando militare della Sicilia chiedendo l’invio di soldati a difesa della Prefettura.
Furono mandati a rinforzo 50 militari del 139 ° fanteria Sabauda, dalla caserma Ciro Scianna, armati di fucile e bombe a mano. Li guidava un giovane sottotenente originario di Canicattì, Calogero lo Sardo. Gli scioperanti cominciarono a lanciare sassi e bastoni, gli animi si riscaldarono e dopo qualche minuto fu dato ordine ai soldati di sparare. Qualcuno sparò certamente in aria, ma qualche altro ad altezza d’uomo, furono addirittura lanciate bombe a mano sulla folla: fu una strage, la terribile “strage del pane“.
Rimasero uccise ben 24 persone, molte di loro giovanissime, e altre 158 furono ferite alcune delle quali gravemente. Una strage immotivata, una strage assurda! Non bastava forse discutere e placare il malcontento? La gente era stanca e voleva portare solo il pane a casa, ma perché? Chi volle tutto questo? Il silenzio e il mistero piombarono subito in quel luogo, bisognava coprire quell’assurdo massacro: di corsa, vennero ripulite le strade e “steso un lenzuolo di commiato” dichiarando lutto cittadino.Fu questa la prima strage dell’Italia liberata dal fascismo. Una strage da dimenticare e presto dimenticata.
Il processo si celebrò il 20 Febbraio 1947 presso il tribunale militare di Taranto, in appena 2 giorni, con una sentenza reputata scandalosa. La Corte riconobbe l’eccesso colposo di legittima difesa, ma dichiarò di “non doversi procedere a carico degli imputati per essere tutti i delitti estinti per amnistia“.Ma chi ordinò di sparare sulla folla? Fu una decisione politica che veniva dall’alto o fu il sottotenente Lo Sardo che impaurito diede il terribile ordine? Ancora oggi non esiste una risposta certa a queste domande.
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