“L’uomo è cacciatore” è un modo di dire per giustificare l’attitudine maschile a considerare la donna la preda su cui scaricare il desiderio fisico maschile. Se la donna rifiuta a farsi preda, l‘esito finale della caccia può costarle la vita. Si sa che il cacciatore insegue la preda per farle del male, per ucciderla. E’ vero che non tutti gli uomini si riconoscono in questo stereotipo maschile. Una volta, fino alla metà del secolo scorso circa, quella frase veniva usata dalle mogli per giustificare i tradimenti o l’andare a puttane una volta a settimana dei loro mariti incontinenti. Con le denunce di questi giorni di donne che hanno subito molestie e le violenze sessuali anni fa, squarciando il velo su un fenomeno largamente diffuso, oggi quella frase indica l’incapacità di una parte degli uomini ad avere relazioni con le donne che non siano fondate sulla cultura del possesso e della sopraffazione. C’è l’altra frase, “l’uomo non è di legno”, che è un modo di dire per giustificare la perdita di auto controllo del maschio davanti alla femmina che, per essere vestita in un certo modo o per taluni atteggiamenti interpretati male e volutamente equivocati, scatena l’istinto sessuale del maschio, che non conosce limiti. Un uomo di questo tipo è considerato con una certa indulgenza un passionale e non un intemperante. La perdita di autocontrollo viene vista come una manifestazione di virilità, che non si ferma neppure davanti ad un rifiuto della donna. Di fronte a questi atteggiamenti maschili prevalenti la donna corre il rischio di esporsi alla violenza. “L’ho uccisa perché l’amavo (Falso!)” è il titolo di un bel libriccino, che consiglio di leggere, con il quale le due autrici, Loredana Lipperini e Michela Murgia, confutano le frasi che vengono usate quando si parla pubblicamente di femminicidio. “Ha ucciso la moglie in raptus di gelosia”, “Ha strangolato la fidanzata che voleva lasciarlo”, “Perde la resta e dà a fuoco alla compagna che lo tradiva”, “E’ andata a cercarsela”. Il parroco di un piccolo comune toscano ha affisso nella bacheca parrocchiale il volantino con il titolo “Femminicidio? Le donne facciano autocritica. Quante volte provocano?”. Sono frasi e titoli di alcuni giornali che sentiamo e leggiamo spesso. Con queste frasi si colpevolizza la vittima e si assolve l’autore di questo orribile reato, che è il femminicidio. Un reato gravissimo che non ha una connotazione di classe. I colpevoli di questo reato sono distribuiti in tutte le classi sociali. Dietro l’uccisione delle donne da parte degli uomini, non c’è l’amore. Ci sono uomini che non sopportano che le donne pongano fine ad una relazione che si è sfaldata, perché le considerano non persone libere con una loro autonomia, ma persone sottomesse di loro appartenenza. La violenza sulle donne, in tutte le sue forme dalle molestie allo stupro fino all’uccisione, è una forma insopportabile di violenza. La violenza sulle donne è frutto della cultura del possesso e della sopraffazione, ancora largamente diffusa tra gli uomini senza alcuna distinzione di classe e di ceto sociale, che assegna alle donne un minore valore rispetto all’uomo e un ruolo sociale subordinato. Sono queste le radici culturali della violenza sulle donne. Recidere queste radici richiede una rivoluzione culturale, che devono fare gli uomini perché la violenza sulle donne è problema degli uomini e non delle donne.
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