SIGFRIDO RANUCCI: "IL NATALE E LE SEDIE VUOTE"
- Germinal Controvoce
- 11 minuti fa
- Tempo di lettura: 4 min
Papà lo percepivamo come un eroe in tuta da motociclista.
Quando partiva per giorni per partecipare alle gare, con i miei
fratelli scommettevamo su cosa si sarebbe fratturato: mani, piedi,
costole. Cocciuto e infaticabile, sempre in gara con se stesso per
misurare i propri limiti, era entrato a metà degli anni 50 nella
Guardia di Finanza ed era legatissimo al suo corpo, come fosse
stata una seconda famiglia. Faceva parte del gruppo sportivo: giocava a pallone, faceva scalate e pugilato. Quando avevo sei anni mi comprò un paio di guantoni e ogni sera aspettavo che rientrasse per usarli insieme a lui. Ricordo che si metteva in ginocchio sul tappeto, e quello diventava il nostro ring. Aveva fissato nel muro del corridoio una sbarra di ferro dove faceva le trazioni. Quando avevo sedici anni un giorno mi sfidò: “Ti darò le chiavi di casa quando riuscirai a fare una flessione più di me”. Per superarlo mi allenavo di nascosto. Ero arrivato a farne 49 di seguito, ma nella sfida decisiva lui arrivò a 50, con le vene del collo che straripavano. Non riuscii mai a batterlo. Lo sport che praticò a livello agonistico fu il motociclismo, nella specialità Regolarità, quello che oggi si chiama Enduro, ovvero Percorsi misti tra autodromi e motocross. Fu campione d’Europa a squadre.
Mi impressionava vederlo guidare la motocicletta tra i
letti dei fiumi asciutti e i canaloni, saltando da una pietra all’altra,
senza alcun timore. Quando smise di gareggiare venne impiegato nelle officine meccaniche al comando generale di Roma della Guardia di Finanza.
Mi ricordo che quando finiva la scuola mi portava con sé
in caserma. Indossava una tuta grigia che profumava di officina.
Non vedevo l’ora di andarci perché potevo ammirare le motociclette, ma soprattutto perché andavamo a fare colazione da un fornaio che sfornava pizza calda e croccante che accompagnava
con la mortadella. A volte papà si lamentava di alcuni superiori che gli portavano le auto dei figli da riparare. Lui le riparava e loro non pagavano pezzi di ricambio. Protestò contro questa forma di ingiustizia. Dopo qualche mese gli arrivò una lettera con un provvedimento disciplinare: “Lei non è adatto al comando” era la brutale sintesi. Lui che amava la Guardia di Finanza come una seconda famiglia rimase profondamente amareggiato fino al giorno in cui andò in pensione. Ma anche in pensione, papà mi sembrava lo stesso immortale. Nel novembre del 2016, dopo aver visto l’ultima puntata di Milena Gabanelli, mi chiamò emozionato perché lei mi aveva lasciato pubblicamente il testimone. Poche settimane dopo, mentre era in bagno, ebbe un accesso di tosse e si ritrovò a fissare alcuni grumi di sangue sul pavimento. La diagnosi non gli lasciò scampo: tumore al mediastino, metastasi al polmone e alle ossa. L’oncologo cercò con delicatezza, con un giro di parole, di fargli capire che non gli restava molto da vivere. “Non so se sono stato chiaro” disse alla fine. E mio padre con una serenità disarmante rispose: “Sì, dottore, ma non ho paura di morire, ho avuto tutto dalla vita, ho vissuto sempre vicino ai miei affetti, ho i figli e i nipoti. Non mi è mancato nulla.” Continuò a vivere come se nulla fosse, senza rassegnarsi all’immobilità. Fino a due giorni prima di morire faceva ancora quaranta minuti di tapis roulant. La notte del 21 dicembre cadde dal letto, non riusciva più a rialzarsi. Mia madre era troppo minuta e non ce la faceva a sollevarlo da terra. Mio padre, che nel suo animo era ancora lo scalatore che era stato un tempo, le disse: “Prendi una corda, siediti su quella sedia, fai passare la corda dietro allo schienale”. Lui l’afferrò dall’altro capo e si rimise in piedi con la poca forza che gli era rimasta. Il giorno dopo lo raggiunsi al pronto soccorso del Policlinico Gemelli. La diagnosi era terribile: una delle metastasi era arrivata alla colonna vertebrale. Aveva bloccato la motilità dell’intestino e provocato un blocco intestinale, con l’infezione e la perforazione. “Bisogna intervenire subito” mi disse il giovane chirurgo che era di turno quella sera. “L’alternativa è farlo morire con dolori atroci”. Ma bisognava che papà fosse d’accordo. O che qualcun’ altro si prendesse la responsabilità di autorizzare l’intervento. Quell’uomo che mi sembrava immortale, per la sua determinazione, forza e coraggio, adesso era inerme, prigioniero di un corpo consumato dal male. Gli occhi sbarrati che mi supplicavano, mi chiedevano aiuto. Allungò il braccio e con l’indice e il medio protesi mi diede la sua benedizione, e quello fu il suo saluto. L’avevo convinto che l’operazione sarebbe andata bene. Salimmo al piano delle sale operatorie e ci fermammo davanti a quella dove sarebbe tato operato lui. Il tempo di sederci ed uscì il chirurgo. Con una voce inespressiva ci disse: “Mi dispiace, appena l’abbiamo intubato purtroppo il paziente è morto”. In quel primo istante provai rancore per quel medico che mi aveva costretto a prendere una decisione che non avrei mai voluto prendere. Non lo vidi mai a volto scoperto, sempre con la mascherina e la cuffia, ma non dimenticherò mai i grandi occhi verde-celeste. In alcuni momenti, ripensando a quegli occhi e alle metastasi di mio padre, ai dolori che avrebbe dovuto sopportare se non fosse morto in sala operatoria, ho immaginato che quel medico dallo sguardo chiaro fosse un angelo della provvidenza, di quelli che si preoccupano di proteggere i giusti. Non è necessario attraversare l’inferno per incontrare l’angelo che ci salverà. Spuntano nella vita nei momenti di bisogno, nei momenti delle scelte difficili e scompaiono senza lasciare traccia, li riconosciamo solo quando se ne sono andati. Quando rientrai a casa dei miei genitori, la sedia vuota con la corda alla quale si era aggrappato per rialzarsi era ancora lì. Mia madre l’avrebbe conservata fino alla propria morte. Quella vecchia sedia evocava dentro di me morte e amore. Quando avevo sei anni ero entrato improvvisamente in bagno senza bussare. Avevo spalancato la porta e mi ero trovato davanti mio padre seduto su quella sedia e mia madre seduta sopra di lui, entrambi nudi. Si erano rifugiati in bagno per avere un po’ di quell’intimità impossibile da trovare in una casa piena di ragazzini che giocavano. Ma si erano dimenticati di chiudere la porta. Mia madre e io avevamo soffocato un grido, lei aveva tentato di coprirsi il seno con le mani, mio padre era rimasto con gli occhi sgranati. Avevo chiuso immediatamente la porta. Quella scena mi è tornata spesso in sogno.
Nella foto: mio padre e mio figlio Emanuele










Commenti