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STEFANO VESPO: IL SANGUE DI UN INNOCENTE



Sabato 1 Novembre il paese di Capizzi è stato teatro di un omicidio odioso e insensato; un omicidio che rivela la preoccupante crisi delle nostre istituzioni.


Capizzi è un piccolo paese dell’entroterra siciliano, abbarbicato sui rilievi boscosi dei monti Nebrodi. Paese di agricoltori e allevatori, dal carattere forte e orgoglioso. Paese in cui il senso della comunità è stato rafforzato per secoli dalle nevicate abbondanti nei rigidi mesi invernali, e dalle tortuosissime strade che isolano piuttosto che collegare.

Qui, come ogni sabato sera, molti ragazzi e adolescenti si ritrovano in uno dei bar più centrali e illuminati del paese, per trascorrere qualche ora nell’unico svago che offre un contesto poverissimo di tutto. 

Ma l’allegria è subito interrotta da una macchina che si ferma proprio di fronte al bar. Tutti la guardano con preoccupazione: è l’auto della famiglia Frasconà Filaro. Lo sportello si apre e ne escono il padre, Mario, e i due fratelli, Antonio e Giacomo. Li conoscono tutti in paese: una famiglia violenta e litigiosa, autrice di molti atti vandalici, protagonista di intimidazioni e di risse. Qualcosa accadrà: qualcosa di molto più spiacevole di quanto già è accaduto in passato per opera loro. Portoni di caserme e di civili abitazioni incendiate; automobili e contatatori del gas cosparsi di benzina; minacce violente contro ragazzi e anche contro ragazze, pretese come riluttanti fidanzate e molestate poi per mesi. Insomma, una piaga sociale da anni sopportata dai cittadini di Capizzi, evidentemente senza che la famiglia in questione abbia mai subito conseguenze penali in grado di scoraggiare il loro modus vivendi.

Scendono dall’auto e il loro atteggiamento sicuro e arrogante fa pensare che ormai si sentano intoccabili, qualunque cosa abbiano in mente di commettere, fatto confermato proprio dal modo in cui si svolgerà l' agguato che stanno per compiere.

Giacomo ha deciso infatti di fare fuori, a colpi di pistola, un ragazzo, con il quale aveva ingaggiato una rissa qualche giorno prima, senza alcun motivo veramente valido, per pura spacconeria. Il padre e il fratello dell'assassino lo accompagnano proprio lì, nel luogo più frequentato di Capizzi a quell’ora di sabato sera, dove erano sicuri di trovare la loro vittima. Sceso dall'auto, Giacomo urla ad alta voce e con la pistola in mano il nome di colui che deve giustiziare. Tra i ragazzi si scatena il panico. Mentre molti già fuggono spaventati da quell’arma, qualcuno cerca di rabbonire Giacomo, dicendogli che non è lì la persona che cerca. Dopo aver capito che la vittima designata non é presente, con freddezza Giacomo comincia a sparare, per puro sfogo di rabbia, mirando deliberatamente e con precisione contro dei malcapitati scelti a caso: uno di loro viene ferito di striscio; un altro, un ragazzino di sedici anni, Giuseppe Di Dio, sente un bruciore al collo: vi porta la mano, che ritrae piena di sangue, perché un proiettile ne ha reciso le vene; un altro ancora, con la pistola già puntata sul volto, si salva solo perché l' arma si inceppa. Il sangue, che forma una chiazza enorme a terra, macchia le scarpe dei ragazzi che vi corrono sopra in fuga. Altri adolescenti, amici di Giuseppe, con orrore si ritrovano il sangue anche sui vestiti: per loro quella sarà un’esperienza traumatica, devastante.

Intanto, risalito sulla macchina, l' assassino ritorna tranquillamente a casa. Verrà sorpreso lì dai carabinieri, mentre è seduto a cena con tutta la famiglia. 

Nel frattempo, Giuseppe, il ragazzo colpito al collo, muore dissanguato.

Eppure, pochi giorni prima era già stata deposta una denuncia per minacce a mano armata, proprio da quel ragazzo che "doveva essere ucciso a colpi di pistola" al posto di Giuseppe. Una denuncia finita con una inutile perquisizione presso la casa degli assassini, dove nessuna pistola è stata trovata dagli agenti. Una pistola i cui colpi però erano già stati uditi esplodere la notte di qualche mese prima, nel parco giochi del paese, contro alcune lattine usate come tiro a segno. Una pistola di cui Giacomo si vantava, ansioso di mostrarla, di usarla.

La strage era praticamente già annunciata.

Chi opera così, sembra essere sicuro di una impunità assoluta! Non si preoccupa di essere riconosciuto, non tenta la fuga, non si aspetta neanche di essere perseguito per un delitto come questo, probabilmente.

Chi lo ha reso così sicuro? L' omertà della gente? L' impotenza delle forze dell'ordine? Un contesto sociale, quello dei piccoli centri siciliani, dove le relazioni familiari valgono più della giustizia?

Difficile dire. La giustizia è un concetto molto complesso, qui in Sicilia: una denuncia è vista come atto tradimentoso e vigliacco, e chi lo fa viene guardato come un temibile individuo, estraneo alla mentalità comune, addirittura come un pazzo. Le forze dell'ordine agiscono in questo contesto senza strumenti sufficienti per assicurare l'incolumità della gente, e questo aumenta la sfiducia.

L' omertà è la conseguenza rassegnata di questo intreccio tra mentalità e debolezza delle istituzioni. 

Ma arrivati a questo tragico esito, lo sgomento, la rabbia, il senso di ribellione hanno finalmente prevalso nella gente: di fronte al sangue di un ragazzino innocente, che avrebbe potuto essere il figlio di ognuno degli abitanti del paese, nessuno ha avuto paura di fare il nome dell'assassino.

In tutte le scuole, anche nei paesi vicini, il lunedì mattina ci sono state manifestazioni e proteste organizzate dagli studenti stessi. Nella mia, molti studenti testimoni diretti di quel fatto terribile, hanno raccontato quello che hanno vissuto, con quella apparente leggerezza che nei ragazzi nasconde le ferite più profonde.

“Vedrà professore: quello se ne uscirà con l’infermità mentale e ritornerà a girare per il paese, magari vendicandosi con chi lo ha denunciato!”. “E’ meglio farsi giustizia da soli, mi creda professore!”. Questi sono stati i commenti di quasi tutti miei allievi. 

Rassegnazione, oppure l’esplosione irrazionale della rabbia: le due facce dell’impotenza.

“Eppure qualcosa si può fare”, gli rispondo, “se pensate che le istituzioni non vi difendano, allora dovete costringere voi stessi le istituzioni a fare il loro dovere. Create un comitato, costituitevi parte civile nel processo contro quell’assassino, realizzate un monumento proprio sul luogo dell’assassinio, in modo che gli autori del crimine e le loro famiglie e i loro figli si debbano vergognare per sempre di quello che è stato fatto. Fate in modo che non si spenga l’attenzione, fate capire che voi ci siete e adesso avete gli occhi puntati sull’operato delle istituzioni! Questo omicidio è una delle infinite tessere del grande mosaico della crisi delle istituzioni nel nostro paese”. 

Mi guardano increduli che qualcosa si possa davvero fare, sono titubanti. “Sì, professore: ma chi comincia?”.

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