FRANCESCO FISCELLA UN PAESE CONTRO I SUOI UOMINI MIGLIORI Dall’impunità dei fascisti alla strategia della tensione: una storia italiana di potere, menzogna e sangue
- Francesco Fiscella
- 27 lug
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Alla fine della Seconda guerra mondiale, l’Italia non fu liberata: fu riorganizzata. Gli Alleati – in particolare gli Stati Uniti – non promuovono una vera epurazione dei responsabili del regime fascista, ma ne favorirono il reinserimento negli apparati del nascente Stato repubblicano. L’obiettivo non era costruire una democrazia autentica, ma garantire un ordine politico stabile e allineato agli interessi dell’Occidente nella nuova logica della Guerra Fredda.
In questa direzione si inserisce la scelta di Palmiro Togliatti, ministro della Giustizia e leader del PCI, che nel 1946 promosse un’amnistia generale. Nel nome della pacificazione nazionale, la giustizia fu sacrificata alla stabilità. Ex funzionari del regime, agenti dell’OVRA, magistrati compromessi e ufficiali fascisti non solo evitarono i tribunali, ma furono reintegrati nei servizi segreti, nella magistratura e negli apparati repressivi della Repubblica. La struttura profonda dello Stato fascista sopravvisse, silenziosamente, dentro le nuove istituzioni democratiche.
Contemporaneamente, l’Italia stringeva legami sempre più vincolanti con il blocco occidentale: adesione alla NATO, Piano Marshall, basi militari USA, dipendenza economica. In parallelo, si consolidava una rete occulta di potere composta da logge massoniche (come la P2), organizzazioni clandestine (come Gladio), e centri d’influenza come il cosiddetto "Gruppo dell’Anello" – reti orbitanti attorno a figure centrali come Giulio Andreotti.
Questi organismi non agivano ai margini, ma nel cuore stesso dello Stato, condizionando – se non determinando – decisioni politiche al di fuori dei circuiti ufficiali. Parlare in questo contesto di "Apparati dello stato deviati” è profondamente fuorviante. Non si trattò di deviazioni isolate, ma del funzionamento sistemico, pianificato e consapevole di un apparato integrato, perfettamente fedele agli equilibri imposti dalla Guerra Fredda e agli interessi dominanti.
Ad esempio i servizi segreti non si limitarono a tacere: furono attori centrali della strategia della tensione. Depistarono le indagini, manipolarono l’informazione, distrussero prove, e proteggevano i mandanti delle stragi. Se fosse esistita una componente autonoma e non compromessa al loro interno, avrebbe agito con decisione per fermare la spirale di sangue e fare luce sulla verità. Al contrario, il loro comportamento conferma una complicità strutturale, organica e duratura.
In questo disegno, mafia e terrorismo neofascista non furono avversari dello Stato, ma strumenti funzionali al mantenimento dell’ordine esistente. La mafia divenne il braccio armato dell’ordine invisibile; i gruppi neofascisti, protetti da settori istituzionali e internazionali, diffusero terrore. L’obiettivo era chiaro: annientare il dissenso, paralizzare la società civile, sabotare ogni prospettiva di autentica democrazia.
Tra il 1969 e il 1984 una sequenza di stragi insanguinò il Paese:
Piazza Fontana (1969)
Piazza della Loggia (1974)
Treno Italicus (1974)
Stazione di Bologna (1980)
Stragi senza giustizia, coperte da depistaggi sistematici e verità negate.
In quegli stessi anni furono assassinati uomini delle istituzioni che avevano intrapreso percorsi di rottura:
Aldo Moro (1978), rimosso da un sistema che temeva il compromesso storico.
Piersanti Mattarella (1980), eliminato per aver cercato di spezzare il legame tra mafia, affari e politica.
E ancora, una lunga lista di servitori dello Stato caduti nella lotta alla criminalità organizzata:
Cesare Terranova (1979)
Gaetano Costa (1980)
Pio La Torre (1982)
Carlo Alberto Dalla Chiesa (1982)
Rocco Chinnici (1983)
Giuseppe Montana (1985)
Ninni Cassarà (1985)
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (1992)
Queste morti non furono frutto del caso né il risultato di tragiche fatalità. Furono il prezzo imposto a chi aveva osato incrinare gli equilibri occulti tra criminalità organizzata, politica, interessi economici e poteri internazionali. A confermare questa inquietante verità è un dettaglio troppo spesso rimosso: l’esplosivo utilizzato negli attentati contro i magistrati Falcone e Borsellino proveniva da basi della NATO situate sul territorio italiano.
La verità, per quanto scomoda, è lineare: lo Stato italiano pur disponendo degli strumenti necessari per colpire in modo decisivo la criminalità organizzata non ha mai agito. Non per incapacità, bensì per una scelta politica. La presenza della mafia, pur non essendo un ostacolo assoluto all’ordine repubblicano, rispondeva a una logica di convenienza. Garantiva un controllo sociale attraverso la paura, favoriva l’instabilità utile a neutralizzare ogni reale processo di emancipazione democratica e copriva, con il ricorso sistematico alla violenza quando necessaria, interessi trasversali e convergenti affinché rimanessero intatti. In questo schema, la mafia non era un’anomalia: era una funzione
L’Italia non ha combattuto la criminalità. Ha combattuto chi cercava la verità. Non è una democrazia tradita, ma una democrazia mai nata. Chi ha lottato per la Costituzione, per la giustizia e per la libertà è stato lasciato solo. Prima delegittimato, poi eliminato.
Non sono morti perché deboli. Ma perché troppo forti per un Paese che ha scelto di seppellire la verità e abbandonare il sogno di una vera democrazia.










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